Visuale notturna.

I miei passi echeggiavano per il borgo. Era notte e il paese sembrava disabitato. Quella via, era chiusa al traffico e fatta eccezione per qualche vecchia bicicletta abbandonata lungo il muro, non vi erano segnali di vita. Nessun vaso fiorito, nessun lenzuolo steso, nessuna voce, nemmeno in lontananza.
Ero indecisa se provare un senso di inquietudine o di pace profonda.
Arrivai al belvedere. La lampadina del lampioncino era fulminata da anni, ma nessuno si era ancora preso la briga di sostituirla.
Mi sedetti sui gradini, contenta di quel freddo pungente.
Cosa ci facevo alle tre del mattino, su una terrazza panoramica? Sorrisi, senza darmi una risposta, pur conoscendola.
Mi guardai intorno e cercai di stimare mentalmente quante ore avessi passato in quel luogo, non ci riuscii. Mi vidi bambina, con il mio zainetto azzurro lucido, adolescente, totalmente zuppa per via dei gavettoni di ferragosto e poi ancora mi vidi lì, l'anno del mitico capodanno e ancora universitaria a discutere sull'inefficienza dello Stato.
Sorrisi ancora, stavolta velando il mio sguardo di nostalgia. Mi mancavano quei momenti, e tutte le persone che popolavano quei ricordi. Alcune erano tuttora parte della mia vita, altre non le avevo nemmeno più pensate negli ultimi anni. Mi domandai chi e dove fossero adesso.
Sospirai, tra qualche anno forse, avrei aggiunto questa immagine, alle altre.
Ero cresciuta, ero diversa, eppure subivo ancora lo stesso fascino di quel luogo, nonostante la sua pessima pavimentazione frutto di una poco sovvenzionata ristrutturazione, i suoi scalini di marmo scivolosissimi e nonostante fosse notte e non si vedessero che le luci dell'autostrada e di qualche treno notturno per chissà dove.
Malinconica, alzai lo sguardo al cielo. Beh, almeno le stelle si vedevano.
Cercai di ricordare le nozioni di astronomia che avevo immagazzinato nel corso degli ultimi anni, lo sforzo fu inutile, come al solito non riuscii a riconoscere nessuna costellazione.
Pensai a Kant e a come la mia professoressa del liceo enunciasse con trasporto le sue parole, “Due cose mi riempiono l'animo di sempre nuovo, crescente stupore e timore reverenziale: i cieli stellati sopra di me e la legge morale dentro di me”.
Per la prima volta, dopo anni, mi riappacificai momentaneamente con l'idealista tedesco.
Il vento mi spettinava e qualche lacrima mi rigava il viso.
Mi alzai, mi ricomposi. Erano le cinque, pensai di aspettare l'alba, poi mi ricordai che la visuale a est era ostruita dai palazzi.
Era tardi o molto presto, comunque sia, dovevo rientrare a casa.
Per quanto tempo non avrei rivisto quel luogo? Probabilmente qualche anno.
Aprii la borsa, dentro c'era un libro, un saggio sul dono, trovato anni prima su una panchina. Scrissi sulla prima pagina, che quello era il mio regalo per quel posto e per chi lo sentiva suo.
Lo lasciai sul mio fido gradino.
Controllai la carta d'imbarco. Partenza 14.55, Arrivo 16.30.
Un nuovo inizio era in arrivo, ma sarebbe stato scortese andarsene senza salutare.

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